«Un angelo del Signore parlò a Filippo e disse: ‘Alzati e va verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta’. Egli si alzò e si mise in cammino, quand’ecco un Etiope, […] Proseguendo lungo la strada, giunsero dove c’era dell’acqua […] Fece fermare il carro e scesero tutti e due nell’acqua»
Atti 8, 26-38
Se parliamo di pòlis non si può che parlare di bene comune “È il bene di quel noi tutti”, formato da persone, famiglie che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per sé stesso, ma per le persone che fanno parte della pòlis e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene.
“Volere il bene comune nella pòlis e adoperarsi per essa, è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune nella pòlis è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pòlis, di città.”
Ogni cristiano è chiamato a questa Carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pòlis, capaci di cooperare alla rigenerazione della pòlis, come coscienze, abilità, volti e storie di responsabilità, come soggetti di rinnovamento umano e sociale in una Pastorale della Carità.
Questa premessa mi riporta alla mente la metafora delle fontane, le fontane, che si trovano nelle piazze delle città o anche in alcuni quartieri periferici dove ci si reca per prendere l’acqua per dissetarsi. Le fontane, spesso, sono ad un crocevia di strade.
Così le fontane richiamano l’azione che anima le giornate degli operatori della Caritas all’interno della città comunità. Al crocevia di ogni città dove imbocchiamo la strada dell’agire per sviluppare il carattere di itineranza della pastorale della Carità, la strada dell’agire per promuovere ed accompagnare attraverso la Carità la città degli uomini, la strada per promuovere il senso del riscatto, educando al bene comune, la strada per essere presenti e per essere comunità.
L’intenso sforzo che abbiamo assunto in Caritas Diocesana, per fare nostro il senso dell’ascoltare, dell’osservare e del discernere dentro il vissuto dei territori poliedrici della pòlis, ci ha portato a cogliere nell’ascolto, nell’osservazione e nel discernimento un metodo, una scelta, uno stile complessivo attraverso cui poi, a livello locale o più specifico, le Caritas Parrocchiali portano avanti la loro presenza e il loro servizio pastorale ai poveri ed a ogni persona che vive un momento di difficoltà materiale, sociale e spirituale.
In questo senso, ad esempio, deve leggersi, ad esempio, l’intervento a supporto delle piccole realtà imprenditoriali nel centro storico di Palermo, prima e dopo il lockdown. In quella circostanza, la Caritas di Palermo, ha potuto realizzare un’azione di supporto che ha conseguito il duplice obiettivo di superare una contingenza legata ad un fatto imprevedibile come la pandemia e la possibilità di immaginare, ancora, un futuro.
Questa azione è stata pensata dalla Chiesa di Palermo per supportare, una comunità, quella dei piccoli artigiani, delle botteghe storiche e delle piccole imprese, realtà alle quali, oramai purtroppo troppo spesso, gli istituti di credito non danno più retta, e si trovano di fronte alla possibilità di cessare le proprie attività, interrompendo tradizioni culturali, parti indispensabili della narrazione della città nel tempo, creando un danno all’intera città comunità.
Questo ricco patrimonio, cresciuto in modo diffuso nei decenni, va mantenuto e preservato perché raggiunga ogni giorno l’alto obiettivo di fare crescere, nei nostri territori, un abbondante ascolto, un’ampia osservazione e un sapiente discernimento a servizio di tutta la pòlis.
Per poterlo mettere in atto bisogna impastare emergenza e quotidianità che per la Caritas diocesana significa maturare una consapevolezza nuova sul come abitare il territorio e come comunicare il Vangelo della Carità. Occorre tornare e ritornare nei territori a tessere reti e a riattivare rapporti tra le persone, che i flussi astratti della globalizzazione tendono a rompere.
La nostra scelta è lavorare preparando il terreno alla solidarietà, ricostruendo innanzitutto coesione, ossia capacità di riconoscersi e di vivere interagendo.
L’esperienza delle Caritas parrocchiali radicate in un territorio ci consegna la concreta possibilità di promuovere la Carità di popolo: una diffusa solidarietà di quartiere, di contrada, di condominio e una cultura dell’ospitalità fatta di ascolto, di sospensione del giudizio sulla diversità dell’altro, di simpatia. Si è chiamati a promuovere un modo di abitare il quartiere e la città alimentando una cultura delle relazioni e della condivisione, rimettendo insieme gli uomini, riaprendo circuiti di fiducia, producendo socialità in contesti devastati. È necessario aiutare le comunità ad incarnarsi nel proprio territorio.
Nostra cura è creare e ricreare, generare e rigenerare una vera e propria agorà, dove all’interno c’è una fontana nella quale si muovono i volti sofferenti di una società poco attenta ai deboli. La gente delle nostre Caritas parrocchiali è protagonista di questa agorà come presenza attenta e rispettosa fra compagnia e profezia.
La mensa Diocesana con annesso il dormitorio, come il Centro di Ascolto Diocesano come i tanti Centri di Ascolto Parrocchiali sono un’utile palestra di animazione per la pòlis. L’impegno centrale rimane l’educare con i fatti.
Dobbiamo, credo, coltivare sempre più la pazienza di chi vuole portare avanti la crescita di tutta la propria comunità, piuttosto che l’ansia da primato che gratifica nell’immediato.
E ciò a cui stiamo assistendo è un processo di scomposizione e ricomposizione dei luoghi e delle appartenenze, quali i quartieri, soprattutto le periferie che seguono una logica di creazione di nuovi margini, confini, divisioni, esclusioni. L’insicurezza diventa un tema dominante.
Che fare?
Occorre sviluppare politiche di coesione e di solidarietà. I fenomeni di urbanizzazione, gli stessi tempi della vita della nostra città, i crescenti ritmi lavorativi, il senso di insicurezza, rendono sempre meno scontata l’esistenza di comunità di quartiere coese e solidali. La solitudine urbana, la parcellizzazione sociale, la difficoltà a incontrarsi nelle città, al di là dei luoghi di consumo urbani, debbono in qualche misura interrogarci.
Un territorio accogliente è un territorio sicuro, dove trovare sempre una fontana di virtù cui attingere tutti e gratuitamente. Solo una comunità coesa e solidale riesce a creare un territorio sicuro.
Sicuro innanzitutto su un piano sociale, cioè un territorio che non lascia fuori i soggetti deboli, che sa esercitare un accompagnamento sociale verso tutte le condizioni a rischio di devianza, che non crea ghetti urbani e sociali.
Che lo vogliamo o no, siamo forzati a uscire da noi stessi ed a misurarci con l’altro, dato che ci troviamo ad avere a che fare con un’alterità che risulta meno filtrata dall’elemento istituzionale. Proprio per questo l’etica dell’alterità ha qualcosa da dire rispetto ai grandi nodi del nostro tempo: innanzitutto la ricostruzione delle basi della convivenza umana passa per una rifondazione dell’idea di persona uscendo dalla sindrome dello spettatore che ci rende tutti indifferenti. Il vero sviluppo umano è quello centrato sulla persona. Uno sviluppo a misura d’uomo, oggi, è uno sviluppo umano e non violento, con lo sforzo e la fatica di tessere reti, di inserirsi in alcune reti, è comune a tutte queste esperienze. Sulla relazione, sulla prossimità e la reciprocità da promuovere tra soggetti diversi, dobbiamo investire le nostre risorse progettuali. La sfida per una pastorale della Carità, anche e soprattutto per il progredire della città comunità, è in termini di animazione: da una risposta Caritas, all’azione reciproca di persone e comunità che colgono un problema e si mettono insieme per cercare una risposta ai bisogni ed ai desideri.