Palermo, luogo degli estremi dove convivono il sublime e l’orrido, spesso nello stesso luogo e nello stesso tempo.
Palermo la città tutta porto che sembra nata per l’accogliere, tanto che la sua cartografia storica la rappresenta sempre vista dal mare, con il nord orientato verso il basso. Palermo che sembra rifiutare il mare e nei tempi più vicini ha fatto di tutto per nasconderlo e negarlo.
“Palermo che sembra rifiutare il mare e nei tempi più vicini ha fatto di tutto per nasconderlo e negarlo.
Palermo dei giardini, luoghi dove l’idea si concretizza in materia vivente. “
Palermo dei giardini, luoghi dove l’idea si concretizza in materia vivente. Giardini come Villa Giulia, uno dei primi esempi pensati per la fruizione di tutti e non solo per le élite, ma nel contempo luogo archetipo e campionario di segni volutamente solo per iniziati. Giardini legati alle architetture magniloquenti ed esclusive delle ville, distrutti e fagocitati dal sacco edilizio e infine, in qualche caso condivisi alla comune fruizione nello stato angoscioso e agonizzante di memoria fatiscente.
Palermo del Genio, criptico simbolo di Palermo. Presente da secoli nella iconografia cittadina, che, come dice la scritta incisa alla base di una delle sue rappresentazioni, “divora i suoi e nutre gli stranieri”.
Palermo, città dove “non si perde neanche un bambino”. Mare, monti che si traguardano sempre da uno scorcio, con un centro storico marcato da una croce di strade della quale il centro è teatralmente segnato.
Palermo capace di obnubilare i più moderni strumenti di navigazione con la sua toponomastica immaginaria di nomi storicizzati ma mai adottati eppure radicati e tramandati; Quattro canti, Piazza politeama, Piazza Croci, Quattro canti di campagna, Via Roma nuova, la Statua.
“Però Palermo è la città che nasce da un porto, al centro del Mediterraneo, luogo di mercanti e di mercati che naturalmente, a prescindere dalle contingenze storiche, non può che essere aperta a tutte le genti. “
Palermo città dove 16.000 persone vivono in un luogo chiamato ZEN, che non è il più grande ashram del mondo, ma un territorio dove il sacco del territorio si è incontrato con il degrado sociale e con le utopie fighette di una parte di intellettuali che nati bene e posizionati meglio, perfettamente inseriti nelle logiche di potere mettevano la pezza culturale a operazioni perfettamente funzionali al degrado del territorio e all’abbandono del centro storico. Un quartiere rifiutato dalla città, dagli autori e dagli stessi abitanti è già di suo un esercizio filosofico.
Però Palermo è la città che nasce da un porto, al centro del Mediterraneo, luogo di mercanti e di mercati che naturalmente, a prescindere dalle contingenze storiche, non può che essere aperta a tutte le genti. Un luogo di scambi e di commerci, a lungo sede di un regno, che attira e coinvolge le genti del resto della Sicilia e da tutto il bacino del Mediterraneo. Si insediano nella città in fasi successive amalfitani, pisani, genovesi, catalani, lombardi, calabresi e napoletani. L’inserimento è così integrato e profondo che ognuna di queste nazioni si aggrega in entità strutturate ed esprime i propri amministratori, contrattano privilegi e concessioni con le autorità e edificano sontuosi luoghi di culto che spesso assolvono anche alla funzione di luogo di riunione per la comunità. Un discorso a parte merita il fenomeno dell’immigrazione a Palermo dai territori lombardi dell’Alto Lario, territorio sovrapponibile alla parte settentrionale delle coste del Lago di Como. Dall’inizio del Cinquecento comincia una emigrazione verso Palermo di un numero che diventerà sempre più significativo per tutto il XVI secolo e mantenersi a consistente fino alla metà del XVII per concludersi con l’unità d’Italia. Spostamento di mano d’opera quasi integralmente impiegata nel settore dell’argenteria e dell’oreficeria, giustificata dalle dure condizioni dei territori lombardi in quei tempi e da una fiscalità non mediata dalla presenza di un Parlamento con una funzione minima di contrattazione con il potere centrale.
“La cultura, intesa nella sua accezione più larga è il solo elemento che può creare senso di comunità”
Queste presenze testimoniano la strutturazione di un luogo urbano non solo che arriva fino alle odierne dimensioni significative, ma che, anche con la presenza di nobiltà di alto rango, sviluppa una architettura che da un lato ha una grossa componente autocelebrativa, ma che realizza una teatralità dell’abitato che la rende fruita e condivisibile anche all’ultimo dei suoi abitanti. Si costruisce così nei secoli una Palermo fatta da grandi macchine architettoniche “di facciata”, ma anche di spettacolari palazzi abitati dalle grandi famiglie nobiliari, che per la loro sussistenza richiedono il coinvolgimento diretto di artigiani, artisti, personale di servizio, residenti negli stessi ambiti territoriali con una presenza spesso stratificata verticalmente. Se i piani nobili restano appannaggio delle classi dominanti, in una gerarchia a livelli nello stesso luogo e spesso nello stesso edificio si ritrovano ai piani più bassi le botteghe degli artigiani ed i catoi dei meno abbienti. Questo tipo di dinamica, condizionata anche dalle variazioni di stato economiche da parte dei detentori delle proprietà, crea una sorta di condivisione della città, seppure molto asimmetrica, da parte anche dei palermitani meno fortunati.
Nasce così quel tipo approccio che dall’esterno può essere visto come inopportuna grandeur, e che accomuna i palermitani con i cittadini di altre città già capitali. Ma il ruolo di fulcro territoriale innesca giocoforza anche il meccanismo dell’inclusione e dell’accoglienza. Dopo il primo impatto con lo straniero, che può essere molto prossimo semplicemente il paesano, colui che viene dalle campagne, la città digerisce ed integra. I meccanismi si complicano e si inceppano in tempi più vicini a noi. In una situazione di decadenza economica della città, aggravata dall’unità d’Italia, e, successivamente, dagli scempi subiti dalla seconda guerra mondiale. La città viene a doversi confrontare con una immigrazione dalle campagne nuova per numeri e tempi e con un allontanamento dal centro storico su due fronti socialmente opposti. Da un lato gli appartenenti alle classi più agiate si allontanano andando ad occupare i nuovi quartieri residenziali, prodotti quasi sempre di pessime architetture, borghesi declinazioni della manualistica di edilizia popolare; dall’altra i ceti meno abbienti vengono invogliati all’abbandono del centro antico per spostarsi verso i quartieri dormitorio. Sia la fruizione del vecchio centro che la creazione di nuove aggregazioni di comunità nei nuovi quartieri sono fortemente condizionate dal fattore tempo e dai meccanismi di selezione della utenza. Nel centro storico l’abbandono progressivo della popolazione locale è stato sostituito dall’introduzione di nuovi immigrati, gente proveniente da culture lontane catapultate loro malgrado in contesti estremamente connotati. Per contro, i più deleteri fenomeni negli insediamenti di edilizia popolare si devono anche al numero elevato di abitanti previsti, abitanti che si sono spesso insediati e socialmente selezionati attraverso meccanismi di acquisizione degli immobili di natura illegale come la scassata e la conseguente occupazione abusiva tollerata.
L’architettura della città quindi, costituisce un elemento fondante per la costituzione di una comunità. La città da sola, per citare Richard Sennet, potrebbe essere “un insediamento umano in cui è probabile che individui estranei si incontrino”. Se non vogliamo che sia solo un luogo di effimeri consumi a fasce orarie, ma luogo di comunità, il tentativo deve essere di preservane le diversità sociali, economiche, culturali, dando modo che si crei una naturale metabolizzazione di istanze sempre più numerose, veloci e policulturali. La cultura, intesa nella sua accezione più larga è il solo elemento che può creare senso di comunità. I saperi, anche se diversi, hanno meccanismi che creano cultura a prescindere dal tempo e dal luogo. Un bravo falegname siciliano dialoga perfettamente con uno lombardo e con uno africano, così come un bravo marmista si intende con un progettista CAD/CAM. Ma proprio i saperi ci conducono all’aspetto economico: non ci può essere comunità senza economia di comunità. La città non può essere ancora per molto tenuta in piedi da un’economia basata per una buona percentuale dal lavoro pubblico e per un’altra da proventi con grandi margini di illegalità. Una grande città come Palermo ha bisogno di una comunità economicamente solida capace di comunicare e coinvolgere e che si doti di un progetto di sviluppo di grande respiro sia territoriale che temporale.