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Dall’io al noi. Ballarò e il cum della “comunità” operosa

I PARTE

Una comunità africana, gli Himba, conteggia la nascita di un figlio dal giorno in cui il bambino è solo un pensiero nella mente della futura madre. Lei ascolta se stessa finché dentro di sé non sente quella che sarà la canzone del bambino che verrà al mondo. Poi va dal padre futuro e insegna a lui il canto. Quando poi il bambino o la bambina nasce, la madre insegna la canzone alle levatrici, alle donne del villaggio e alle persone intorno a lei, affinché insieme possano cantare la canzone per accoglierlo, e poi nella crescita, confortarlo o gratificarlo. Tutto il villaggio partecipa con quella canzone ad ogni momento della vita del bambino/a che cresce: sia che faccia del bene, sia che commetta atti sociali non confacenti alla comunità o addirittura crimini, le persone della comunità formano un cerchio intorno a lui/lei e cantano la sua canzone perché ritengono che la correzione per un comportamento antisociale non è la punizione, ma l’amore e il ricordo della propria identità, il cuisimbolo è la propria canzone. Sanno che se lui/lei sa riconoscere la propria canzone, perderà la voglia di far qualcosa che possa ferire le persone o danneggiare la comunità. E poi quando si sposerà, o lavorerà, nei momenti di fatica, di gioia, … la comunità accompagnerà la persona fino all’ultimo momento della vita con il suo canto, affinché rimarrà eterna la sua unicità, la sua essenza, la sua vera identità!


“Quando ho letto la storia degli Himba il mio pensiero è andato al luogo in cui vivo e al quartiere di Ballarò/Albergheria.”

Quando ho letto la storia degli Himba il mio pensiero è andato al luogo in cui vivo e al quartiere di Ballarò/Albergheria. Quale può essere per questo quartiere una congruente idea di ‘comunità’? E cosa si intende in generale con il concetto di comunità?
Cominciamo dalle definizioni e dalle accezioni che ci interessano. Dal vocabolario Treccani, “dal latino communĭtas – atis, comunanza. 1. Insieme di persone che hanno comunione di vita sociale, che condividono gli stessi comportamenti e interessi (…); 2. Carattere, stato giuridico di ciò che è comune (…); 3. Complesso degli abitanti di un comune (…); 4. Organizzazione di una collettività sul piano locale; 5. Insieme di persone, per lo più religiosi, che vivono sotto una regola comune; 6. In biologia (…) qualunque gruppo, ecologicamente integrato, del quale facciano parte specie di microrganismi, piante o animali abitanti in una data area”.
Per affinità a comunità accostiamo adesso il concetto di comunicazione. “Comunicazióne, dal latino communicatio – onis (…) 1. In senso ampio, l’azione, il fatto di comunicare, di trasmettere ad altro o ad altri; 2. In senso più proprio, il rendere partecipe qualcuno di un contenuto mentale o spirituale, di uno stato d’animo, in un rapporto spesso privilegiato e interattivo; 3. Più astrattamente, relazione complessa tra persone (di carattere cognitivo, spirituale, emozionale, operativo, ecc.) che istituisce tra di esse dipendenza, partecipazione e comprensione, unilaterali o reciproche; 4. Nell’ambito della psicologia umana e animale, ogni processo consistente nello scambio di messaggi, attraverso un canale e secondo un codice, tra un sistema e un altro. 6. Il mettersi o trovarsi in contatto, in collegamento con altre persone o con altri luoghi, il mezzo stesso del collegamento. 7. Comunicazioni di massa, mass media, per diffondere e divulgare velocemente e con efficacia messaggi semplici e significativi atti a stimolare opinioni, gusti e soprattutto emozioni; 4. Il partecipare, il prender parte a qualche cosa”.

Un’altra affinità: comprendere, “dal latino ‘comprehendĕre’, composto di con- e pre(he)ndĕre, ‘come prendere’. 1. Contenere in sé, abbracciare, racchiudere; 2. Accogliere spiritualmente in sé. In particolare, accogliere nella mente, nell’intelletto, afferrare il senso di qualche cosa, stabilire una relazione tra più idee o fatti. 3. Riferito a persona, penetrarne l’animo, i sentimenti, la psicologia; 4. Sinonimo di ‘capire’. Per estensione, giustificare, scusare umanamente, perdonare e ancora intendersi, penetrare nei sentimenti l’uno dell’altro, avere reciproca comprensione”. Negli ultimi decenni del Novecento in Italia e in Francia molti studi filosofici e sociologici dibattono sull’evoluzione del termine comunità. L’essere umano, in quanto animale politico, ha necessità per sua natura e per soddisfare molti suoi bisogni, di unirsi ai propri simili e di formare gruppi e comunità. Comunità nella storia viene spesso inteso come ciò che connette soggetti che condividono una comune identità. A questa idea corrisponde l’dea di proprio: la comunità era definita contemporaneamente da una appartenenza reciproca dei suoi membri che in comune avevano il loro proprio, e che erano proprietari del loro comune. Solo alcuni esempi. Già Aristotele, criticando la Città Platonica del ‘tutto in comune’, sosteneva come non fosse possibile ignorare le differenze di chi viveva la comunità e che ciascuno sarebbe sempre stato portato a difendere il proprio, la propria individualità. La polis, dice, “non consiste solo d’una massa di uomini, bensì di uomini specificamente diversi per capacità, funzioni, caratteristiche sociali”: ciò garantirebbe secondo Aristotele l’autosufficienza alla polis che altrimenti risulterebbe distrutta da una presunta unità, propria invece della famiglia e dell’individuo. Parsons parla poi di “comunità societaria i cui membri condividono un’area territoriale come base per le attività giornaliere”: avendo come funzione l’integrazione ne derivano per i membri della comunità “obblighi di lealtà nei confronti della collettività societaria”. Ma al cortocircuito storico concettuale tra filosofia e sociologia, in bilico tra comune e proprio, nel 1986 Jean-Luc Nancy in “La comunità inoperosa” prende atto della difficoltà di definire in modo univoco il concetto di comunità: essa non può più di certo essere un’essenza precostituita. Si contrappone così l’idea di comunità che sposa l’idea di alterità, sottraendola a connotazioni univoche. Per Nancy è opportuno “sgombrare l’orizzonte che è dietro di noi”. La sua possibile “comunità operosa” darebbe spazio ad un concetto e quindi ad un progetto nuovo più comprensivo e comprensibile, che sa integrare e far interagire il trinomio comunità/comunicazione/comprensione, che sa verificare di continuo ciò che può tenerli insieme. Il prefisso cum comune al trinomio è la chiave, è il punto di svolta, il centro da cui è possibile diventare comunità che dall’Io individuale passa e si trasforma in Noi: un’idea ‘liquida’ per dirla con Baumann, che può racchiudere e al tempo stesso distinguere, che può includere e all’opposto difendere le univoche e identitarie canzoni di ciascuno! Perché nel cum c’è l’insieme ma non il tutto unico, c’è il cerchio che non ha principio né fine, c’è l’empatia, c’è l’accogliere e c’è l’ascoltare reciproco e rispettoso di ciascuno, c’è la comunicazione e al tempo stesso la comunanza di cose, luoghi, persone, ambienti. In questa idea di comunità è però necessario che il cum passi dal rispetto assoluto dell’alterità, che la diversità di ogni canzone diventi la ricchezza e l’armonia corale della comunità stessa, dove ciascuno può esprimere la sua univoca identità che viene poi accettata dalla comunità e sostenuta nonostante le diversità, pur senza doverla condividere fino in fondo e senza che la comunità intera debba cantare sempre in coro la canzone di ogni membro!
Ma quante canzoni vive e comprende in se stesso il quartiere Ballarò/Albergheria! Cuore variegato e complesso del centro storico, già articolato e differenziato a partire dal suo doppio nome, oggi più che mai attrazione per i turisti. Potersi specchiare nell’alterità, vedere allo specchio non solo il proprio ma anche il proprio dell’altro, quegli altri magari distanti da sé, spazialmente o per vissuti e radici, e che vivono il quartiere nei modi più disparati? Ma cosa è in questo luogo l’alterità? Forse le innumerevoli bellezze artistiche – chiese, piazze, palazzi storici, rientranti o limitrofi al percorso Arabo-Normanno patrimonio dell’Unesco – … e in prossimità i ruderi di palazzi bombardati dalla guerra o con ponteggi che sembrano dire: “come facciamo a sostenervi ancora?!?”. O forse alterità è la presenza di famiglie nobiliari che vivono nei loro palazzi, vicine a tuguri dove rom e famiglie numerosissime vivono anche in una sola stanza. Oppure è l’estrema povertà di residenti palermitani o di immigrati di prima e seconda generazione di oltre venti etnie diverse, vicine ad appartamenti di palazzi storici ristrutturati dove vivono professionisti rientrati negli ultimi quindici anni in centro storico. O ancora è nei visi di giovani minori non accompagnati provenienti da sbarchi e accolti da associazioni di volontariato e in comunità; o è visibile nelle facce di giovani che vivono in residenze universitarie e dei ragazzi di altri quartieri della città che frequentano i licei del territorio. L’alterità è forse iI variopinto mercato storico di Ballarò che guarda e non guarda il mercato del riuso di S. Saverio … ed entrambi a pochi passi si affacciano, guardando e non guardando il nuovo salotto palermitano del Cassaro Alto. E poi c’è ancora un’altra alterità, quella in cui è davvero difficile per chiunque specchiarsi: la presenza più o meno sotterranea, più o meno identificata … di malaffare di varia natura e provenienza.
In questo enorme quadro di opposti e contrari, tra limiti e risorse, a farne le spese sono bambini e giovani, vittime inconsapevoli, ricchi spesso soltanto di povertà educativa e culturale, che vivono in situazione di dispersione scolastica e di microcriminalità, di consumo o spaccio di droghe. Ballarò, la quinta essenza degli opposti! Difficile per chiunque pensare di essere comunità e l’effetto infatti è per molti la chiusura verso l’altro e la difesa del proprio, come se ci si potesse proteggere solo all’interno del proprio piccolo angolo di strada (e questo riguarda ogni ceto sociale o etnia!) Gli adulti, ma soprattutto i bambini vivono la difficoltà di comunicare gli uni con gli altri, dove gli altri spesso sono gli stessi propri vicini: “quel bambino non è di qua!” … e magari abita al di là del muro che divide il mercato di Ballarò dall’Albergheria … come fossero due quartieri diversi e lontani chilometri tra loro!
In questa comunità/non comunità, può essere funzionale un’osservazione dal punto di vista educativo. Sono poche le occasioni di crescita per bambini e ragazzi, lasciate alla buona volontà di parrocchie e associazioni di volontariato, poco o affatto coordinate tra loro, forse per l’enorme difficoltà nel gestire separazioni che gli abitanti stessi del quartiere non sembrano voler colmare. E così le agenzie educative, la scuola, i centri di aggregazione, gli oratori cercano di avere la meglio, facendo slalom insieme alle tante famiglie oneste e ai tanti lavoratori che vogliono comunque tener lontani i propri figli da illegalità e malaffare, cercando di farli crescere e proteggendoli appunto all’interno delle parrocchie o dei centri di aggregazione. Spesso anche dall’esterno del quartiere associazioni realizzano progetti educativi di più o meno breve durata che però non riescono a produrre un reale cambiamento; alcune volte sono poi solo occasioni di beneficenza che rimangono estranee ai processi sociologici del quartiere, che di contro talvolta non li riconosce come propri della comunità. L’odierna generale difficoltà relazionale in ogni ambiente non contribuisce di contro a produrre cambiamenti in positivo sul territorio, soprattutto laddove mancano basi di educazione all’essere persona e a vivere la comunità. Disattenzione, aggressività, arroganza, collera immediata, scarso ascolto, difficoltà di condivisione, mancanza di responsabilità personale, comportamenti accusatori verso gli altri con scarsa presa di coscienza dell’errore proprio, mancanza di capacità di concentrazione, poca accettazione e rispetto di chiunque sia ‘altro’ (non solo l’immigrato!) o diverso. Le conseguenze sono dilagante bullismo, razzismo, violenze di genere, omofobia, illegalità, intolleranza, … che in certi contesti risultano ancor più devastanti. In questo difficile quadro generale sembrerebbe impossibile, in un quartiere come Ballarò/Albergheria, concepire quell’idea di comunità nel senso dell’alterità, e non in quello del proprio. Ma una strada c’è, ed è la strada dell’ascolto di sé in cui ciascuno riconosce intanto i propri bisogni che, per magia, coincidono quasi sempre con quelli degli altri; la strada della parola e della condivisione dei bisogni propri e altrui. Quei bisogni fondamentali per chiunque: l’amare ed essere amati, l’essere riconosciuti e accettati, avere dei punti di riferimento e appartenere a qualcosa o a qualcuno. L’insoddisfazione, l’inquietudine, il vuoto educativo, affettivo, relazionale e quindi sociale dipende sempre da quanto ci dedichiamo ad ascoltare e a far osservare a bambini, ragazzi e agli altri in genere, come conoscere, riconoscere e gestire emozioni e valori dentro di sè. Non è possibile fare comunità se non si parte dall’Io. E solo così sarà possibile trasformare l’Io in Noi. Ecco che servirsi del cum, di quel prefisso che ingloba, mette insieme tutti senza distinzioni, al solo scopo di rispettare il benessere proprio e degli altri, i diritti propri e degli altri, l’alterità di tutti gli altri, nessuno escluso, che vivono quel territorio, quella comunità che solo così potrà diventare operosa.


“Negli ultimi decenni del Novecento in Italia e in Francia molti studi filosofici e sociologici dibattono sull’evoluzione del termine comunità.”

II PARTE

Il centro storico di Palermo, e Ballarò/Albergheria in particolare, nell’idea di comunità/alterità hanno già vinto parte della battaglia quando ha visto tornare ad essere frequentato dai palermitani che dagli anni ‘60/’70 avevano scelto di vivere lontano. Nel 2006 quando arrivai per lavoro a Palermo, un po’ turista entusiasta di conoscere la città, sentivo l’energia contraddittoria e al tempo stesso la carica propulsiva per la gente che ci viveva. L’arte, la storia, i vissuti e le emozioni trasudavano da ogni muro e angolo a cui mi avvicinavo (storia che Messina, da cui provengo, non ha purtroppo!). Partecipavo a ‘passeggiate culturali’ in centro storico, organizzate da ‘eroi’(operatori culturali): eravamo in pochi! Poi raccontavo a colleghi e amici palermitani di aver visitato per esempio il teatro delle Balate, oppure di essere entrata nel vicolo Meschita o visitato la zona ebraica … e vedevo le loro facce stranite: “ma dove si trova?” Intuivo che si desse per scontata tanta ricchezza, il cui significato sembrava invece a me chiaro: luce e ombra fanno parte della stessa unità! Il fascino era per me proprio il contrasto, l’opposto, quella macchia di leopardo che vedevo tra palazzi meravigliosi accanto a ruderi, architravi di secoli passati … diventati cornice di vecchie saracinesche abbandonate!
Oggi i tantissimi turisti fanno da leva, creano per il territorio e per chi opera nel turismo, un confronto, stimolano tutti a migliorarsi: si aprono di continuo sedi storiche da visitare, si vedono vecchi negozi trasformati e abbelliti, si assiste a spiegazioni di conduttori di mezzi di trasporto che comprendono che coi turisti bisogna essere gentili, disponibili, si notano giovani che avviano nuove imprese, comprendendo che il lavoro lo si può inventare mettendo in gioco la propria creatività. Certo molti aspetti negativi restano, ma a chi serve sottolinearli sempre e comunque? Forse solo a deresponsabilizzare e a tenersi alla larga proprio da quel concetto di comunità/alterità, a cui torniamo ancora. Proprio dai dettagli, dai particolari, sia nei luoghi che tra le relazioni, può e deve partire il cambiamento, lento certo! ma inesorabile, condiviso e partecipato. Ma la trasformazione ha bisogno di essere sentita e deve soddisfare anche il singolo, allo scopo di far sentire a ciascuno l’appartenenza e l’efficacia di far parte di un bene comune. Ma … viene da dire che questo può avvenire solo se il singolo ha trovato la propria canzone. Non significa certo soddisfare l’ego, anzi è proprio l’ipertrofia dell’ego di ciascuno che non consente l’ascolto dell’altro, di chiunque altro, non solo dell’emarginato e che di conseguenza non consente crescita comune. L’appartenenza alla comunità si crea con l’ascolto, con l’educazione dei piccoli e la rieducazione dei grandi, con la partecipazione attiva alla crescita del territorio, col coordinamento e l’organizzazione condivisa e partecipata di persone, agenzie, parrocchie ecc. che insieme individuino obiettivi comuni a lungo, medio e breve termine. È necessario creare e ricreare continuamente e dovunque spazi in cui bambini e ragazzi abbiano la possibilità di essere riconosciuti e visti nei loro talenti e al tempo stesso nei loro limiti; è fondamentale che ciascuno trovi prima la propria canzone che verrà poi cantata a suo sostegno anche dalla comunità, perché i membri della comunità sanno che potrebbe prima o poi toccare a ciascuno di aver bisogno del sostegno degli altri. Ma come possiamo far sentire ai bambini e agli adulti la necessità di amare e ricercare la bellezza intanto dentro di sé? Come possiamo insegnare loro il valore dell’impegno? Mai come oggi la nostra società ha bisogno di bellezza interiore ed esteriore, così come di arti, di natura, di legalità, di ambiente ecosostenibile: viviamo nell’era del consumo e della dipendenza dal denaro, dalla tecnologia e dalle immagini, e siamo diventati incapaci tutti di riconoscere il bello, la canzone, l’essenza che si trova dentro ciascuno ed in molti è proprio nascosta. Chiunque però ha già dentro le risorse per riconoscere e produrre bellezza ad ogni livello e in ogni ambito. L’educazione all’arte, per esempio, alla creatività di qualsiasi tipo fa emergere questa consapevolezza. Sembra poco, ma è da qui che si parte per una vera educazione al senso di comunità/alterità: spostare l’attenzione dai prodotti e dai risultati ai processi, dagli effetti alle cause, dagli obiettivi alla soddisfazione dei bisogni.


“L’odierna generale difficoltà relazionale in ogni ambiente non contribuisce di contro a produrre cambiamenti in positivo sul territorio, soprattutto laddove mancano basi di educazione all’essere persona e a vivere la comunità.”

Carl Rogers, in tale direzione aveva semplicemente osservato che le patate nella credenza buia di casa sua erano paragonabili alla crescita degli esseri umani. Nonostante mancasse loro la terra, la luce e l’acqua, i tuberi avevano ugualmente dei germogli per realizzare comunque la loro natura. Anche l’uomo ha bisogno per la propria realizzazione di trovare dentro di sé le proprie risorse. Pur sentendosi in una stanza buia, da solo o aiutato da chi gli vive intorno (perché magari qualcuno ha più difficoltà di altri), ha in sé insito il bisogno di autorealizzarsi che va solo riportato alla luce. Questo è possibile quando ciascuno riconosce negli altri un piano comune, un cum uguale a quello degli altri. Questo piano c’è ed è fatto di sensazioni, emozioni e bisogni. Chiunque le possiede, tutte, senza differenze di sesso, etnia, religione, latitudine o luogo in cui si è nati. Quale individuo, per esempio, non sente che il ‘tempo-casa’ è fondamentale per soddisfare il proprio bisogno di appartenenza ad un luogo, per sentire le proprie radici attraverso la casa e il luogo dove sceglie di vivere. Chi non ha mai provato paura, chi non ha sofferto per amore, chi non si è sentito almeno una volta non riconosciuto dagli altri, chi non si è sentito emarginato o diverso per una qualunque situazione, chi non ha subito almeno una volta una violenza, piccola o grande, … Ecco! Questa è l’unica strada per considerarsi uguali: chi la chiama empatia, chi comprensione, chi … democrazia partecipata. Di certo si tratta di ripartire dall’educazione e dalla rieducazione alla conoscenza del proprio piano sensoriale ed emozionale. Poi … il carattere, la personalità, le diverse esperienze di vita formano ognuno diversamente, ma il piano sensoriale ed emozionale dentro rimane identico nell’essenza, nella propria univoca canzone. Ciascuno potrà sviluppare il suo potenziale, potrà trovare le proprie risorse, ma soprattutto potrà comprendere, comunicare ed essere in empatia e quindi in comunità con quegli altri che, seppur diversi su tanti altri piani umani, sono uguali nell’essenza. L’uomo tende al suo bene sempre: purtroppo anche quando commette brutalità e crimini pensa di agire al meglio delle possibilità che ha a disposizione in quel momento. E talvolta basta solo che se lo ricordi, o che qualcun altro glielo ricordi, che ha in sé tutti gli strumenti per realizzarsi, che ha una sua canzone che lo rende unico.
E oggi proprio questa deriva sociale obbliga tutti, nessuno escluso, a ripensare il cum come ciò di cui e a cui dobbiamo rispondere. “Dall’ego sum all’ego cum, lo stesso io non è pensabile che in rapporto agli altri. Quel che tutte le forme di comunità operosa hanno in comune è la progettazione di sé come realizzazione dell’essenza, vagheggiamento dell’assoluto (…). La comunità da costruire operosamente è un’istituzione che racchiude, tiene in sé l’essenza. Il tratto comune a tutte le comunità dell’assoluto sta nel fatto di collocare qualcosa (un’idea, una cosa, una persona) come non plus ultra, come epifania dell’essenza, proprio perché inglobante in sé, qualcosa che va al di là della sua finitezza di cosa e/o persona. La comunità operosa coincide con la presentazione nella migliore delle forme di qualcosa che di per sé non ha forma: si tratta infatti di un’essenza, la quale è sempre ulteriore alla forma, ma di cui l’entità comunitaria si è appropriata in modo soddisfacente. L’operosità di questa comunità consiste nell’accogliere in sé quest’essenza e nell’incanalarla dandole così forma. Anche se la società è il meno comunitaria possibile, non è possibile che non ci sia comunità. La questione dell’essere e del senso dell’essere diventa la questione dell’essere-con e dell’essere-insieme. È in questo che Nancy individua il significato dell’inquietudine moderna, che non ha a che fare con una ‘crisi della società’, ma con una sorta di ingiunzione che la ‘socialità’ o la ‘socializzazione’ degli uomini rivolge a se stessa, o che essa riceve dal mondo. il concetto di comunità sembra perdere ogni contenuto tranne quello del proprio prefisso, il cum, il con sprovvisto di sostanza o di legame, spogliato di interiorità, soggettività e personalità. Nancy sottolinea la necessità di dover decidere di e come essere in comune, come permettere alla nostra esistenza di esistere e di farsi storia.” Insomma … che ciascuno insieme agli altri abbia, a Ballarò/Albergheria e nel mondo, la possibilità di cantare la propria canzone!

1 Treccani, Vocabolario online
2 Aristotele, Politica – Libro II, 2007 Laterza
3 T. Parsons, Teoria sociologica e società moderna, 2015, Pgreco
4 U. Perone, Intorno A Jean-Luc Nancy
5 J. L. Nancy, La comunità inoperosa, 2003, Cronopio
6 D. Goleman, The spirit creative, 2001, Rizzoli
7 C. Rogers, Il potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, 1978, Astrolabio
8 L. Minutoli, Tra Luce e Ombra. Percorsi espressivi di evoluzione personale per riconoscere e integrare ciò che è, 2011, Ed. EricksonLive

APPELLO PER LA CULTURA DELLA LETTURA A PALERMO.

Creeremo interconnessioni attraverso le quali condividere iniziative, progetti, proposte e dibattiti a favore della diffusione del libro.