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Al di là del muro: una comunità

Nessuno ha intenzione di costruire un muro»

15 giugno 1961, Walter Ulbricht.1

La sera del 9 novembre 1989, a Berlino, Desirée era con un amico ad allestire una mostra. Poco prima di tornare a casa dal marito e dalla figlia ricorda, ancora oggi con emozione, di avere sentito la notizia più importante della sua vita: «Da questo momento è consentito viaggiare verso l’Ovest per motivi privati senza alcun tipo di restrizione2».
Il portavoce della DDR, Günter Schabowski, aveva appena dato l’annuncio, rispondendo alla domanda tranchant del corrispondente dell’ANSA Riccardo Ehrman. Una risposta impacciata, che avrebbe dato, un istante dopo, il via al crollo del muro di Berlino ed alla fine delle restrizioni che limitavano gli spostamenti tra l’est e l’ovest.
Desirée, come tanti berlinesi, quella sera, ha raccontato di non averci pensato due volte: ha messo in moto la sua trabbi, unico veicolo prodotto dalla Germania dell’Est, per vedere con i suoi occhi se quel mondo vietato, all’improvviso, era diventato davvero accessibile. È andata verso il Muro3.
Quella sera, al di là del muro, Desirée, come tanti berlinesi dell’est e dell’ovest, ha incontrato un’umanità della quale sino ad un istante prima, era stata privata.

Di quella storica notte, rimangono le immagini sbiadite delle edizioni straordinarie dei tg internazionali. Esse restituiscono, solo parzialmente, la felicità di una città – una comunità – riunita.
Questo ha fatto di Berlino una città iconica. Nessuna città, infatti, in Europa, al termine della seconda guerra mondiale, ha conosciuto una storia simile alla sua.
Nell’aprile del 1945 l’armata rossa di Stalin4, forte di quasi due milioni e mezzo di soldati, l’aveva distrutta nella forma e nello spirito.
Mentre i berlinesi attendevano angosciosamente all’interno dei bunker la fine delle ostilità, determinate da un Reich demoniaco che avrebbe dovuto governare il mondo sotto la guida del Führer, la città, suo malgrado, si apprestava, a vivere un altro appuntamento con la storia: la guerra fredda.
Una partita a scacchi politica, ideologica e militare, e del tutto inedita, quella della c.d. guerra fredda, che, mentre ancora si brindava, si celebrò tra le due potenze principali emerse vincitrici dalla seconda guerra mondiale: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e che fino al 1989 tenne, in più circostanze, il mondo con il fiato sospeso5.

Perché la «cortina di ferro» sul continente europeo fosse più comprensibile a tutti, nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, fu costruito un muro di 160 km. La Germania Est sostenne che si trattava di un muro di protezione antifascista inteso a evitare un’aggressione dall’Ovest. Fu chiaro, a chiunque, sin dall’inizio, che questa giustificazione era una copertura: ai cittadini della Germania Est doveva essere impedito di entrare a Berlino Ovest e di conseguenza nella Germania Ovest. Questa circostanza si spiegava con la fuga in massa di professionisti e lavoratori specializzati che si spostavano all’ovest, per non parlare delle diserzioni dall’esercito. Con la costruzione del muro le emigrazioni passarono da 2,6 milioni tra il 1949 e il 1961 a cinquemila tra il 1962 e il 1989. Dal punto di vista propagandistico la costruzione del muro fu un disastro per la DDR e, in generale, per tutto il blocco comunista.
Il muro divenne presto, infatti, l’icona del sistema sociale6 dei “vincitori” ed il simbolo della tirannia comunista, specialmente dopo le uccisioni di chi aspirava alla libertà commesse sotto gli occhi dei media.7

Trent’anni dopo la sua caduta, nel 2019, mi sono ritrovato – anch’io come Desirée – al muro8, in una Berlino oramai pienamente cosmopolita, libera da muri e reti elettrificate, ma pur sempre imprigionata, come la gran parte delle metropoli contemporanee, nel penitenziario del consumismo9.


Un muro è sempre simbolo di durezza e insensibilità, di separazione insormontabile; e quando gli uomini costruiscono un muro lo fanno per separare, per tracciare un confine, per arginare, per proteggersi.


Il bacio mortale10 di Vrubel, tra Brežnev e Honecker, sembra volere ricordare a chiunque, che questa verità perenne può nascondersi perfino dietro un bacio.
Il muro di Berlino non ha diviso soltanto la città in due blocchi. Il muro ha separato con un rigore agghiacciante il cuore urbano della città, tagliando in due tutto quanto si trovasse sul suo corso: strade, fiumi, boschi, case, cimiteri, famiglie, affetti e tante singole vite umane. Tutto questo lo ricordano molto bene, ancora, i residenti di Bernauer Straße11. Il muro, così, ha diviso una comunità.
Dei 160 km del muro, oggi resta quello che basta a non dimenticare. Almeno questa è l’intenzione. La storia del Muro di Berlino è anche e soprattutto una storia collettiva; è l’esperienza di una città costretta a vivere in una situazione eccezionale e impossibile da una guerra ideologica globale e totalitaria, che non risparmiava nessuno.
Il rischio dell’oblio, purtroppo, esiste ed è concreto, in una contemporaneità distratta ed irrimediabilmente immersa nelle stupende realizzazioni materiali e intellettuali dell’era industriale che non hanno sempre coinciso con uno sviluppo integrale dell’uomo. Basti pensare che gli avventori dei negozi di elettronica aumentano, mentre diminuiscono quelli delle biblioteche.
Una società, la nostra, che a volte sembra sempre più assomigliare a quella immaginata nel 1953 da Ray Bradbury, in Fahrenheit 451, ed ambientata in un imprecisato futuro posteriore: il 2022. Una società distopica in cui leggere o possedere libri o pensare è considerato un reato.
Questo fenomeno potrebbe apparire distante dal tema. Ma non è così. Il progresso tecnico ha determinato la costruzione di una società in cui il valore della produzione e del consumo condurrebbe l’uomo verso la felicità, in una leggerezza che tuttavia non trascende oltre gli schermi degli smartphone e che valorizza l’individualismo sul personalismo.
In Avere o essere? Fromm ci racconta la fine dell’illusione della grande promessa di progresso illimitato, che ha sorretto le speranze e la fede delle generazioni che si sono succedute a partire dall’inizio dell’era industriale. Contro il modello dominante della prevalenza della modalità esistenziale dell’avere, Fromm delinea le caratteristiche di un’esistenza incentrata sulla modalità dell’essere, in quanto attività autenticamente produttiva e creativa, capace di offrire all’individuo e alla società la possibilità di realizzare un nuovo e più profondo umanesimo. «Grazie al progresso industriale, cioè al processo che ha portato alla sostituzione dell’energia animale e umana con l’energia dapprima meccanica e quindi nucleare e alla sostituzione della mente umana con il calcolatore elettronico, abbiamo potuto credere di essere sulla strada che porta a una produzione illimitata e quindi a illimitati consumi; che la tecnica ci avesse resi onnipotenti e la scienza onniscienti; che fossimo insomma al punto di diventare dei, superuomini capaci di creare un mondo “secondo”, servendoci del mondo naturale soltanto come di una serie di elementi di costruzione per edificarne uno “nuovo”»12.
Un mondo nuovo, è anche quello immaginato da A. Huxley nel suo romanzo. Ambientato nell’anno di Ford 632, corrispondente all’anno 2540 della nostra era, nel quale una società il cui motto è “Comunità, Identità, Stabilità”, a seguito di una devastante guerra di nove anni, l’intero pianeta viene riunito in vari grandi stati, governati da dieci Governatori Mondiali. La popolazione ignora il motivo della propria situazione attuale: sa solo che il passato era caratterizzato dalla barbarie. Solo i Governatori sanno come la presente società sia nata e come fosse in precedenza. La nuova società è basata sui principi della produzione in serie, applicati inizialmente nelle industrie automobilistiche di Ford alla produzione del “Modello T”. Per questo Ford è il Dio di questa nuova società ed il segno della “T” ha rimpiazzato il segno della croce cristiana.
I danni provocati dal consumismo, nella nostra società, non sono facilmente calcolabili ed occorre che presto si realizzi un lavoro collettivo che porti le persone a vivere più autenticamente la prospettiva comunitaria, sacrificando quella individualistica, per lo più di tipo digitale.
Fortunatamente l’uomo non si è totalmente rassegnato alle distopie di Huxley e Bradbury, ed al paradigma dell’avere si sono accompagnate anche tante e diverse esperienze che ci fanno comprendere che la misura dell’uomo è sempre l’essere.
L’essere in comunità, poi, è una specificità dell’essere abitanti della polis, che vale la pena di accennare.

Per meglio comprendere l’importanza dell’essere e dell’essere comunità, occorre chiedersi se il paradigma del “muro” nel tempo che viviamo, può considerarsi superato.
La cronaca recente, purtroppo, ci conferma che la costruzione di un “muro”, continuerebbe a rappresentare la più efficace delle soluzioni ed il pericolo che un esempio storico come quello del Muro di Berlino, con quello che ha rappresentato, stia rapidamente scivolando nel regno dell’oblio con il pericolo concreto che la storia sia condannata a ripetersi.
Seppure con presupposti diversi, ma con l’identica finalità di separare, basti pensare al c.d. “Muro di Trump” ad esempio. Pochi giorni dopo aver prestato giuramento, il 25 gennaio 2017, il presidente Donald Trump firmò l’ordine esecutivo 13767: il decreto presidenziale che ordinava formalmente al governo degli Stati Uniti di sviluppare prototipi per il muro lungo il confine tra Messico e Stati Uniti per bloccare tutti i migranti che arrivavano dal Sud e Centro America.
A novembre 2020 erano stati costruiti circa 600 chilometri di barriere di confine, e il 5 gennaio 2021, il muro raggiunse una lunghezza totale di 727 km. Il successore di Trump, il Presidente Joe Biden, all’inizio del duemilaventuno, pur consapevole di dovere pagare risarcimenti milionari alle imprese appaltatrici, annunciò di porre fine alla costruzione del muro, senza tuttavia distruggere i segmenti esistenti, non considerando la soluzione del muro una “soluzione politica seria”13.
Ma anche in Europa, incredibilmente, tra gli stati membri dell’Unione e tra quelli che vi aspirano a farne parte, si sviluppa questa tendenza a costruire muri. L’ha inaugurata il leader ungherese Viktor Orbán che, nel mezzo della crisi migratoria del 2015, ha deciso la costruzione di una recinzione al confine tra l’Ungheria e la Serbia per impedire ai profughi – nella maggior parte dei casi siriani e afgani che percorrevano la rotta balcanica – di entrare nel paese per raggiungere altri paesi dell’Unione europea. Sei anni dopo, davanti alla possibilità di una nuova ondata di profughi in particolare provenienti dall’Afghanistan, dodici paesi europei (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno chiesto a Bruxelles di finanziare con fondi europei la costruzione di muri alle loro frontiere. La Lituania, uno dei paesi firmatari della lettera, ad esempio, ha già deciso di costruire una recinzione lunga 508 chilometri al confine con la Bielorussia per fermare l’arrivo di migranti soprattutto iracheni. Anche la vicina Lettonia ha annunciato che costruirà un recinto di filo spinato lungo 134 chilometri al confine con la Bielorussia.

L’inadeguatezza di queste scelte, tuttavia, si scontra con il desiderio di comunità e fratellanza che è insito in ogni uomo.
Nell’Enciclica Fratelli Tutti,


Papa Francesco ci ricorda che: «L’amore, infine, ci fa tendere verso la comunione universale. Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi. Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza.


Gesù ci ha detto: Voi siete tutti fratelli (Mt 23,8). Questo bisogno di andare oltre i propri limiti vale anche per le varie regioni e i vari Paesi. Di fatto, “il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri”»14.
Ed è attraverso questa comunione di diversità che l’uomo giunge al porto sicuro della comunità. Una voglia di comunità che neppure la complessità di un muro fisico o ideologico può impedire che si realizzi.
A proposito di questo desiderio, Bauman scrive: «Le parole hanno dei significati; alcune di esse, tuttavia, destano anche particolari “sensazioni”. La parola “comunità”

è una di queste. Emana una sensazione piacevole, qualunque cosa tale termine possa significare. “Vivere in una comunità” è qualcosa di buono. Quando qualcuno esce dalla retta via, spieghiamo spesso la sua condotta insana dicendo che “frequenta cattive compagnie”. Se qualcuno conduce una vita miserabile, piena di sofferenze e priva di dignità, subito accusiamo la società, i criteri con cui è organizzata, il modo in cui funziona. La compagnia o la società possono essere cattive, la comunità no. La comunità – questa è la nostra sensazione – è sempre una cosa buona. […] La comunità è un luogo caldo, un posto intimo e confortevole. In secondo luogo, in una comunità possiamo contare sulla benevolenza di tutti. Se incespichiamo o cadiamo, gli altri ci aiuteranno a risollevarci. È dunque facile comprendere perché la parola comunità emani una sensazione così piacevole. A chi non piacerà vivere tra gente gioviale e di animo buono di cui potersi pienamente fidare? Per noi in particolare, che viviamo in un’epoca priva di valori, un’epoca fatta di competitività sfrenata – dove tutti sembrano intenti a curare solo i propri affari e pochissimi sono quelli disposti ad aiutarci, dove la risposta alle nostre invocazioni di aiuto è un invito ad arrangiarci, dove solo le banche, desiderose unicamente di ipotecare le nostre proprietà, sorridono e sono pronte a dire “si” e anche questo solo nelle pubblicità e non nelle filiali – la parola comunità ha un suono dolcissimo; evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi. In breve, la comunità incarna il tipo di mondo che purtroppo non possiamo avere, ma nel quale desidereremmo tanto vivere e che speriamo di poter un giorno riconquistare. Comunità è oggi un sinonimo di Paradiso perduto, ma un paradiso nel quale speriamo ardentemente di poter tornare e di cui cerchiamo dunque febbrilmente la strada. Il privilegio di vivere in una comunità richiede un prezzo da pagare, un prezzo trascurabile o finanche impercettibile fintantoché la comunità resta un sogno. La valuta con cui si paga tale prezzo è la libertà, variamente definita autonomia, diritto dell’autoaffermazione, diritto di essere sé stessi. Qualunque strada si scelga, da una parte si guadagna e dall’altra si perde. L’assenza di comunità significa assenza di sicurezza; la presenza di una comunità, quando si verifica, finisce ben presto con il significare perdita di libertà. Sicurezza e libertà sono due valori parimenti preziosi e agognati, che possono essere più o meno bilanciati, ma quasi mai pienamente conciliati ed esenti da attriti.
La dicotomia tra sicurezza e libertà, e dunque quella tra comunità e individualità, non sarà probabilmente mai risolta e pare dunque destinata a perpetrarsi ancora a lungo; il mancato approdo alla soluzione ideale e la frustrazione suscita da quella sperimentata ci induce non ad abbandonare la ricerca, bensì ad intensificare gli sforzi. In quanto esseri umani, non possiamo né realizzare la speranza né smettere di sperare.
Gli esseri umani non possono vivere senza sicurezza e libertà, ma non possiamo avere entrambe contemporaneamente e nella misura che riteniamo soddisfacente. Questo non è un buon motivo per smettere di cercare, ma ci ammonisce a non

credere mai che una qualsiasi delle varie soluzioni temporanee adottate non richieda ulteriore analisi o non posso essere migliorabile. Il meglio può essere un nemico del bene, ma la perfezione è sicuramente un nemico mortale di entrambi»15>.

Attorno all’idea di comunità paradigma di una società unita nella consapevolezza della centralità dei valori dello spirito e di quelli della cultura, nella quale le opportunità del progresso tecnologico vengono indirizzate alla costruzione di un mondo materialmente più realizzato e spiritualmente più elevato, di una società a misura d’uomo si sviluppa l’esperienza del Movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti nel 1947, per promuovere le azioni di una comunità concreta in Ivrea e nel Canavese.
Oggi la figura umana, la proposta civile e politica, l’azione culturale ed imprenditoriale di Adriano Olivetti, sono oggetto di riscoperta e la conservazione e valorizzazione della memoria, divulgazione culturale della figura di Olivetti sono solo alcuni dei temi affrontati dalla Fondazione che porta il suo nome e celebra nel 2022 i suoi sessant’anni di attività.
Nella società fondata sull’idea di una Comunità concreta, Olivetti, ritiene fondante il concetto di persona, distinto e contrapposto al concetto di individuo.
«La Persona – scrive Olivetti – nasce da una vocazione, dalla consapevolezza cioè dal compito che ogni uomo ha nella società terrena, e che come tale essa si traduce in un arricchimento dei valori morali dell’individuo. In virtù di ciò la Persona ha profondo il senso, e quindi il rispetto, sostanzialmente e intimamente cristiani, della dignità altrui, sente profondamente i legami che l’uniscono alla comunità cui appartiene, ha vivissima la coscienza di un dovere sociale; essa in sostanza possiede un principio interiore spirituale che crea e sostiene la sua vocazione indirizzandola verso un fine superiore. L’individuo riposa su elementi materiali e dalla materia è individualizzato e limitato. Esso quindi si muove secondo la risultante di un puro urto di forze, in un piano in cui le leggi spirituali non spiegano la loro invisibile potenza. Se il mondo che nasce vuole evitare catastrofi e volgere verso mete superiori, occorre creare una società in cui la Persona abbia la possibilità immediata di esplicare la propria umanità e spiritualità. È solo in una comunità né troppo grande né troppo piccola che una concreta solidarietà può esplicarsi. La società individualistica, egoista, che riteneva che il progresso economico e sociale fosse l’esclusiva conseguenza di spaventosi conflitti di interessi e di una continua sopraffazione dei forti sui deboli, la società polverizzata in atomi elementari o spietatamente accentrata nello Stato totalitario, è distrutta. Sulle sue rovine nasce una società umana, solidaristica, personalista: quella di una Comunità concreta»16.

La Comunità per Adriano Olivetti, unisce, tende a collaborare, desidera insegnare, mira a costruire. Il Movimento, si pose il problema sin dal suo esordio e propose una nuova formulazione ideologica, che coniugasse e rendesse attuabili quei principi di solidarietà e umanità che accomunano socialisti e cristiani.
Un obiettivo ambizioso da realizzare, aiutati dall’esperienza della storia e della tradizione e che spinge Adriano Olivetti anche ad adoperarsi affinché «tra di noi aleggi il motto che animò il Concilio di Trento: “Nelle cose necessarie unità, nel dubbio libertà, in tutte le cose tolleranza”»17.
Il lungo cammino verso la comunità non è ancora concluso. Come scriveva Olivetti è «in cammino; ma richiede grandissima pazienza, molta tenacia, molti sacrifici»18. Per questa ragione, ciascuno di noi ha il dovere di impegnarsi nella costruzione di questo percorso che deve essere collettivo, condiviso e plurale. Perché «solo nella Comunità, l’intelligenza sarà veramente al servizio del cuore, e il cuore potrà finalmente portarsi al servizio dell’intelligenza».19

Dal ritiro di Orsigna, la magnificenza di una natura incontaminata, poteva suggerire, ad uno scrittore perennemente in viaggio come Tiziano Terzani, pensieri attuali per altri viaggiatori: «Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove siamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano, chiamato poi “illuminato”, spiegava una cosa ovvia: che “l’odio genera solo odio” e che “l’odio si combatte solo con l’amore”. Pochi l’hanno ascoltato. Forse è venuto il momento».20


Un nuovo umanesimo che si sviluppi, attorno, all’idea di comunità è più necessario che possibile. Ma non possiamo perdere più tempo. “La storia punisce chi arriva in ritardo”.


Così a Berlino, il 7 ottobre del 1989, ad un mese dal crollo del Muro, Gorbaciov, ammonì il leader della DDR, Honecker, che non accettava l’inarrestabile corso della storia.

La sera del 9 novembre, il mondo, non solo Berlino, cambiò per sempre. La memoria del Muro, però perché non resti un selfie, è urgente che si traduca in impegno: personale, condiviso, comunitario. È importante. Perché ogni uomo possa suonare la campana della civiltà umana. Senza timore e senza esitazione.

1. (Anklam, 4 gennaio 1929 – Berlino, 1 novembre 2015) Capo di Stato della DDR, e segretario del
Partito Socialista Unitario della Germania.
2.  La Repubblica, Morto G. Schabowski, l’uomo che con le sue parole abbatté il muro di
Berlino. https://www.repubblica.it/cultura/2015/11/01/news/morto_guenter_schaboswki_l_uomo_che_con_le_
sue_parole_abbatte_il_muro_di_berlino-126405159/?ref=HREC1-5
3. https://www.vanityfair.it/news/storie-news/2019/11/08/muro-di-berlino-30-anni-storia-testimone?refresh_ce=
4. La battaglia di Berlino fu l’ultima grande offensiva del teatro europeo della seconda guerra mondiale
e segnò la sconfitta definitiva della Germania nazista. L’Armata Rossa sovietica prima travolse,
nonostante l’accanita resistenza, il precario fronte tedesco sul fiume Oder, quindi accerchiò e attaccò
direttamente la capitale del Terzo Reich, disperatamente difesa da reparti raccogliticci della Wehrmacht,
delle Waffen – SS, della Hitlerjugend e del Volkssturm. I sovietici, in netta superiorità numerica e di mezzi terrestri e aerei, riuscirono, al comando del maresciallo Georgij Žukov e del maresciallo Ivan Konev, a portare a
termine la loro missione, a distruggere o catturare il grosso delle forze nemiche e a ottenere la resa di Berlino il 2 maggio 1945. I combattimenti sulla linea del fiume Oder e soprattutto all’interno dell’area urbana di Berlino, violenti e prolungati, costarono pesanti perdite di uomini e mezzi a entrambe le parti.
Durante la battaglia Adolf Hitler, che aveva deciso di rimanere nella capitale accerchiata per organizzare
l’ultima resistenza, si tolse la vita per non cadere in mano sovietica. Il Terzo Reich si arrese ufficialmente
l’8 maggio 1945, sei giorni dopo la fine della battaglia. Dal punto di vista geopolitico complessivo, la battaglia di Berlino ebbe sicuramente una importanza decisiva per l’organizzazione territoriale europea del dopoguerra e per gli sviluppi iniziali della Guerra fredda. Con la prestigiosa vittoria sovietica e la conquista della capitale nemica, Stalin poté far valere la sua posizione nelle trattative con gli alleati occidentali sull’assetto futuro della Germania e ottenere la conferma dell’area di occupazione del territorio tedesco già prevista negli incontri precedenti tra i
capi alleati. Le truppe dell’Armata Rossa, entrate vittoriose a Berlino e nel territorio tedesco orientale,
avrebbero garantito per oltre quarant’anni la posizione di potere dell’Unione Sovietica nel cuore dell’Europa.
5. La crisi dei missili di Cuba, meno nota come crisi di ottobre o crisi dei Caraibi, fu un confronto tra gli
Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica in merito al dispiegamento di missili balistici sovietici a Cuba
in risposta a quelli statunitensi schierati in Turchia, Italia e Gran Bretagna, in vicinanza della frontiera
con l’URSS. L’episodio, avvenuto durante la presidenza di John Fitzgerald Kennedy è stato considerato
uno dei momenti più critici della Guerra fredda in cui si è arrivati più vicino a una guerra nucleare.
Il 24 ottobre Papa Giovanni XXIII inviò un messaggio all’ambasciata sovietica a Roma da trasmettere
al Cremlino in cui espresse la sua preoccupazione per la pace. In questo messaggio dichiarò: “Noi
chiediamo a tutti i governi di non rimanere sordi a questo grido di umanità e di fare tutto quello che è
nel loro potere per salvare la pace” [Pope John Helped settle the Cuban missile crisis, in The Telegraph, 4 giugno 1971].
6. L’espressione “sistema sociale” rimanda alle parole pronunciate da Stalin nel 1945 al maresciallo
jugoslavo Tito che contengono in nuce l’essenza della Guerra Fredda: «Questa guerra è diversa da tutte
quelle del passato; chiunque occupi un territorio, gli impone anche il proprio sistema sociale. Ciascuno
impone il proprio sistema sociale fin dove riesce fin dove riesce ad arrivare il suo esercito, non potrebbe
essere diversamente», J. Gilas, Conversazioni con Stalin, Feltrinelli, Milano 1962, p. 121.
7. Ezio Mauro , Anime Prigioniere, Cronache dal Muro di Berlino , Fuochi Feltrinelli.
8. La East Side Gallery (letteralmente «galleria del lato orientale») è un memoriale internazionale alla
libertà ed è il maggior tracciato rimasto in posizione originale del muro di Berl ino. Questa sezione di
muro è lunga 1,3 km ed è interamente dipinta con graffiti fatti da diversi artisti, riguardanti temi come
la pace o comunque della caduta del muro in seguito alla fine della cosiddetta guerra fredda. Il lato
posteriore fu dipinto nel 1990 e dal 1992 è considerato monumento protetto.
La East Side Gallery è situata sulla Mühlenstrasse, a lato della Sprea, fra la stazione Berlin Ostbahnhof
e la fermata della metropolitana di Warschauer Straße, nel quartiere di Friedrichshain.
9. Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane , Garzanti, p. 109.
10. Il bacio è uno dei graffiti più celebri della East Side Gallery, il più lungo tratto di Muro rimasto in
piedi ai giorni nostri. È ispirato ad una foto di Regis Bossu scattata nel 1979 durante il trentesimo
anniversario della DDR, la Germania dell’est. La fotografia si diffuse in tutto il mondo grazie alla rivista
Paris Match. È stato realizzato dall’artista Dmitri Vrubel nel 1990 e raffigura Leonid Il’ič Brežnev e
Erich Honecker, nel 1979 rispettivamente Segretario Generale dell’URSS e Presidente della DDR,
nell’atto di scambiarsi un bacio fraterno sulle labbra per salutarsi in una cerimonia ufficiale. Fu un bacio
storico. Doveva rappresentare la solidità del legame tra i due Paesi, la stessa che il Muro orm ai crollato
sottolineò come un esperimento chiaramente fallito. Nella riproduzione della foto a cui è ispirata,
l’artista russo autore del murale scrisse in basso, come didascalia “Dio mio, aiutami a sopravvivere a
questo bacio della morte” in lingua tedesca.
11. Gianluca Falanga, Non si può dividere il cielo, Storie dal Muro di Berlino , Carocci Editore.
12. Erich Fromm, Avere o essere?, Oscar Mondadori, pag. 11.
13. https://www.whit ehouse.gov/briefing – room/presidential – actions/2021/01/20/proclamation-termination-of-emergency-with-respect-to-southern-border-of-united-states-and-redirection-of-funds-diverted-to-border-wall-construction/; https://www.reuters.com/article/us-mexico-border-idUSKBN2AC1M2; https://www.ilsole24ore.com/art/biden-blocca- costruzione-muro-il-messico-ma-restano-nodi-contratti-AD3TNdFB?refresh_ce=1;
14. Francesco, Fratelli tutti , nn. 95 – 96, pg. 75, L.E.V.
15. Zygmunt Bauman, Voglia di Comunità , pg. 6, Economica Laterza.

16.  Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Edizioni di Comunità, pag. 43.

17. Adriano Olivetti, Il cammino della Comunità, Edizioni di Comunità, pag. 33.

18. Adriano Olivetti, ibidem, pag. 61.

19. Adriano Olivetti, ibidem, pag. 34.

20. Tiziano Terzani, Lettera da Orsigna, 14 settembre 2001, pg.

21. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/05/30/morto-uomo-del-muro.html; https://www.ilsole24ore.com/art/mangiare-ananas-quell-altra-parte-muro–dossier–berlino-di-la-muro-ACo77gx;

APPELLO PER LA CULTURA DELLA LETTURA A PALERMO.

Creeremo interconnessioni attraverso le quali condividere iniziative, progetti, proposte e dibattiti a favore della diffusione del libro.