Una comunità per crescere e migliorarsi ha bisogno di informazione, di sapere cosa succede al suo interno, di approfondire i motivi delle decisioni e dei processi dinamici che si svolgono tra le sue componenti. Ma perché cresca bene, e quindi con la consapevolezza di tutti, è necessario che l’opinione pubblica sia informata in modo trasparente e corretto e che le notizie che circolano al suo interno siano prodotte in modo professionale. Il che vuol dire che l’informazione sia prodotta e diffusa in modo da rispondere a una serie di requisiti etici e deontologici che ne garantiscano la veridicità, ma non solo:
“Quella che deve essere chiara è la fonte, cioè, non solo da dove vengono queste informazioni, ma anche chi trasmette il messaggio, cioè colui il quale si prende la responsabilità della comunicazione e deve anche rispondere degli eventuali errori in buona o, peggio, in cattiva fede.”
Detto questo, però, è assolutamente necessario definire il contesto nel quale si muovono le dinamiche dell’informazione, per capire se i principi che stanno alla base del liberalismo democratico – e quindi della diffusione delle idee senza alcuna barriera, limitazione o peggio censura – siano validi ancora oggi, quando gli strumenti di comunicazione non sono più quelli di fine Settecento, dell’Ottocento e nemmeno del ‘900, ma consentono a chiunque di esprimere il proprio pensiero, la propria idea, e di veicolarla così come anche le notizie che produce o semplicemente diffonde dopo averle apprese.
Il contesto è molto importante visto che, quando gli Enciclopedisti, gli Illuministi, i padri del pensiero liberale fondavano la loro azione politica e civile sulla base di alcuni assunti – come ad esempio il principio di dover difendere le idee degli altri anche nei casi in cui non si condividessero, e anche sino alla morte – ciò comportava il confrontarsi su qualcosa che veniva scritto, stampato, pubblicato dopo un’attenta verifica sul contenuto del quale l’autore si assumeva tutte le responsabilità anche legali e giuridiche. E anche chi avesse voluto confutarlo doveva a sua volta prendere carta e penna e, più recentemente, inchiostro e rulli per stampare e rispondere a un libro con un libro, a un articolo con un articolo, a uno scritto con un altro scritto, che veniva diffuso all’interno di una comunità, diciamo, ristretta e che veniva poi affrontato in un dibattito tra élite che si conoscevano, si confrontavano e soprattutto si assumevano la responsabilità di quello che affermavano.
“Oggi, duecentocinquant’anni dopo, è possibile affermare che siamo disposti a dare la nostra vita per concedere la libertà a qualcuno di affermare che la terra è piatta?”
Certo è un esempio estremo, ma rende bene l’idea della situazione del Terzo Millennio, in cui la libertà di pensiero viene confusa con la libertà di dire qualunque cosa a prescindere dalla sua fondatezza e soprattutto a prescindere dalla responsabilità che se ne deve assumere chi sostiene idee o diffonde notizie che poi non rispondono alla verità.
Oggi, con la rete e i social, nello spazio di pochi secondi è possibile pubblicare qualsiasi cosa che sia idea o notizia e si può farlo senza avere alcuna responsabilità nella sua diffusione.
Davanti a questa situazione quali sono gli effetti nello sviluppo delle relazioni all’interno di una comunità grande o piccola, da quella del paese a quella della metropoli sino alla nazione o addirittura al continente, e perché no, al mondo intero?
“Servono interventi legislativi forti a livello internazionale per mettere mano alla giungla che si è creata, anzi, che si è lasciato crescere in questi ultimi decenni nel web, che risulta oggi un campo libero in modo particolare sui social, in cui i concetti vengono diffusi anche da molte entità sconosciute che si moltiplicano senza avere poi la responsabilità di quello che affermano.”
Ma quale parte politica si può impegnare in modo netto e preciso in questo senso? Quale istituzione necessariamente sovranazionale può affrontare una dura e difficile battaglia contro i colossi del web che in questi decenni hanno costruito una fortezza sociale e economica, dalla quale oggi possono dettare le regole di vita della comunità mondiale?
Ci sono inoltre casi ancora più gravi: i cosiddetti odiatori seriali. Difesi dall’anonimato, possono organizzarsi e inserirsi in una qualsiasi conversazione tra due utenti, ma anche in dibattiti pubblici, attaccando impunemente singole persone o gruppi o pure partiti, facendo apparire le opinioni sostenute sbagliate, impopolari o costringendo le singole persone ad avere paura, essere intimidite, costrette a abbandonare la vita pubblica o comunque a dimensionare la loro presenza nella discussione comune.
In una lunga intervista rilasciata a Repubblica tempo fa, Federica Pellegrini, stella dello sport non solo italiano ma mondiale, e bersaglio sui social più volte, ha detto delle cose molto semplici per uscire da questa situazione e limitare la possibilità di usare spazi pubblici solo per far male agli altri: chiedere a chi scrive su un social la carta d’identità e di aggiungere la propria foto nel profilo. In questo modo si esce dall’anonimato. E soprattutto si costringe ad assumersi le proprie responsabilità nel caso di affermazioni forti e pesanti, che vanno a intaccare la dignità di altre persone o che rischiano di far girare nel web notizie, se non proprio false, non verificate non attendibili e che, come alcune notizie seriali su argomenti caldi (violenza sulle donne, immigrazione, ad esempio), vengono messe in giro appositamente su siti costruiti proprio per inquinare l’opinione pubblica.
Ha ripreso pochi giorni fa questo stesso concetto Aldo Grasso, nella sua rubrica sulla prima pagina del Corriere della Sera, commentando il caso degli haters di Loretta Goggi:
“Quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli”, usando la citazione di Céline nel “Viaggio al termine della notte.”
E – rimarca Grasso – siamo nel 1932.
Novanta anni dopo siamo allo stesso punto.
La comunità, qualunque essa sia, ha il diritto di difendersi da questo attacco ad un bene primario quale quello della circolazione delle notizie e delle idee, che però, se avviene senza regole, diventa nello stesso tempo la maggiore fonte di inquinamento e di danno alla crescita consapevole.
Una vera comunità democratica, infatti, è tale solo se ha delle regole ferree alle quali attenersi e che deve far rispettare attraverso una serie di meccanismi di controllo reciproco all’interno del famoso equilibrio tra i diversi poteri, e uno di questi è proprio l’informazione, che deve essere libera, ma che nello stesso tempo deve essa stessa rispettare quelle stesse regole e, quindi, deve essere sottoposta, non a un controllo censorio, ma a quello della responsabilità che ciascuno di noi deve avere in quello che fa.
Solo così: da un lato con il rispetto delle regole che evitano la legge della giungla e, quindi, l’affermazione o del più forte o del più ricco; e, dall’altro, con l’assunzione di responsabilità di ciascun componente della comunità e, quindi,
“con la possibilità di risalire sempre alla fonte primaria dell’informazione e con le conseguenze di responsabilità su chi replica ad una notizia, o ad un fatto, senza avere la cura di verificarla, possiamo sperare che la crescita di consapevolezza e di qualità di ogni comunità avvenga in modo etico”
con il risultato di aver probabilmente contribuito al bene comune e al miglioramento delle singole vite dei cittadini che la compongono.